Tanzania, tre anni dopo. L’importanza di guadagnarsi il rispetto sul campo (o sarebbe meglio dire… sul tappeto?!)

E così, stamattina mi sono resa conto che tre anni sono passati, da quel memorabile (terribile!) 4 luglio 2010 in cui sono atterrata a Dar Es Salaam con tutta la mia vita stipata in un trolley rosa e una grande confusione in testa.

Sì. Rispondevo perfettamente all’identikit della persona “scappata” all’improvviso in capo al mondo, senza lavoro e non perfettamente consapevole di quello che sarei stata in grado di fare. Alla domanda “E tu cosa fai qui?” non sapevo bene cosa rispondere. Alla domanda “Cosa sai fare?” l’inutile risposta era “So fare siti Internet e ho lavorato in una rivista di moda. Però a scrivere in inglese sono un po’ lenta”.

Oggi per molti Dar Es Salaam è la nuova Silicon Valley, tutti coccolano le start-up. Se sai smanettare ad arte e hai delle buone idee, questo è il posto giusto. Ma tre anni fa non era così… i siti Internet non se li filava quasi nessuno, a parte qualche testa un attimo più eccentrica della media.

D’altra parte, appena arrivata non sapevo niente. E la mia classica attitude da “torinese tipo” – si faccia i fatti suoi, che io mi faccio i fatti miei, né! – non era affatto di aiuto. Poi è successa una cosa. Capto un segnale da un discorso tra ragazzini su Facebook: “Mustafa cerca un web designer!”… cerco, trovo l’annuncio. Mustafa cercava veramente un web designer.

Impallinata di moda come sono, Mustafa era uno dei pochi nomi locali che avevano senso per me, all’epoca. Mustafa fa vestiti. E organizza sfilate. Ed è anche il cervello che ha partorito la Swahili Fashion Week, la settimana della moda tanzaniana. O-emme-gi, ho pensato, adesso rispondo all’annuncio. E poi sono andata al colloquio. Ammetto che ho accettato il lavoro più per curiosità che altro: volevo vedere la Fashion Week dal backstage, end of the story.

Ora vi dico come funzionava questo lavoro. L’ufficio non era proprio un ufficio, ma un atelier di sartoria, tanzaniano per giunta. Due stanze in cui lavoravamo in dieci, la maggior parte dei colleghi erano sarti o decoratori di vestiti o cose del genere. Per terra c’era un tappeto, ed era più comodo della scrivania consunta, quindi spesso e volentieri mi ci sedevo sopra, come un buddha con il portatile scassato di fronte, e producevo il mio HTML quotidiano.

Quasi ogni giorno arrivavano spose con famiglia al seguito per provare gli abiti, e mi trovavo improvvisamente circondata da gonne, tacchi e altri oggetti contundenti che attraversavano il mio spazio vitale da ogni lato. Quando si avvicinava un evento o una sfilata, l’atelier diventava un magazzino in procinto di traslocare. Quando c’erano i casting, l’atelier si riempiva di modelle che bivaccavano per tutto il giorno spettegolando ad alto volume. Durante il Ramadan tutti digiunavano e io mangiavo un panino di nascosto.

Il gioco era rimanere zen, e finire il sito della Fashion Week (e tutti gli altri, uno per ogni nuovo business di Mustafa). Che alla fine è arrivata!

Che dire… quella settimana non ho quasi dormito. Al massimo qualche riposino nella stanza dello staff al grand hotel, con il portatile come cuscino. Ho retto il ritmo, aggiornando in tempo reale foto e notizie su tutto quello che succedeva. Ho conosciuto persone, tanta gente di ogni tipo – non pensavo che questa città fosse così affollata! Sono anche riuscita a mandare la diretta delle sfilate in streaming usando una webcam e un modem USB – perlomeno, finché il modem non si è fuso!

Poi è finalmente arrivata la domenica. Mi hanno riportata a casa alle 7 del mattino, avevo il jet-lag (veramente) e ho dormito tutto il giorno.

Il lunedì successivo, alle 8.30, una nuova scrivania mi aspettava in una agenzia pubblicitaria di Dar Es Salaam. E questa è la storia di come sono diventata Mama Mtandao (Signora Internet) in Tanzania! – anche se il mio sito per la Fashion Week è durato giusto il tempo dell’evento 🙂

Il blog di Gisella www.pinkcoffee.it

 

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