Vita da migrante, la paura che impedisce di fare il salto dalla comfort zone

In questi giorni mi è capitato di dover dare un consiglio ad un conoscente che ha ricevuto una bellissima offerta di lavoro da Amazon, a Edimburgo, come sviluppatore informatico.

Il suo grande dilemma parte dal fatto che nella sua attuale società multinazionale dove lavora, in Italia, ha ricevuto una promozione, di ruolo e di stipendio. Il giorno dopo lo chiamano da Edimburgo, dove aveva fatto il colloquio qualche settimana prima.

35 anni, single, vive con i genitori. Che consiglio dare se non: parti subito!

Eppure, nonostante l’iniziativa di mandare i curriculum all’estero fosse partita proprio da lui, il dilemma gli ha fatto passare notti insonni (e tra l’altro solo oggi scoprirò effettivamente cosa ha deciso di fare).

Quali paure può avere un ragazzo in salute della sua età?

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Farsi i conti in tasca non vale, perché è ovvio che rimanendo con i genitori avrebbe maggior guadagno, non dovendosi pagare vitto, alloggio e spese (se non, si spera, per un contributo familiare concordato).

Dal lato emotivo è sicuramente lì che si paga lo scotto più grande partendo, ma i vantaggi di crescita personale sono a mio avviso impareggiabili. Imparerà (finalmente!) a gestirsi da solo la casa, a pagarsi le sue spese e farsi i conti.

Soffrirà sicuramente all’inizio di solitudine, ma poi, a meno di essere un orso per natura, qualche amicizia gli darà il sostegno, e grazie alla tecnologia, non mancherà di sentire la famiglia di origine anche tutti i giorni, forse anche più di prima, quando presi dalla routine magari neanche ci si parla o ci si guarda in faccia.

Cosa scegliere fra comfort zone e sfida personale e possibilità di crescita?

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Sapere di potersi affidare ad uno psicologo nei primi periodi di transizione è sicuramente qualcosa che può generare una spinta di sicurezza in più. Sicuramente potrò consigliare a questo mio amico lo psicologo a Edimburgo Diego Zanelli, al quale ora porrò una domanda dopo una dovuta premessa:

La comfort zone è la nostra situazione/luogo dove ci troviamo perfettamente a nostro agio. Nel momento in cui cerchiamo, anche quasi inconsciamente, di migliorare la situazione, come il ragazzo che ha mandato i curriculum all’estero, significa che c’è qualcosa che vogliamo cambiare, per trovare e crearci una nuova comfort zone, che non è sbagliato avere, ma che non deve diventare poi la nostra prigione, così come non deve esserlo la situazione di partenza.

Dottor Zanelli, cosa ne pensa di questa mia affermazione?

Riporto un breve commento rispetto alla situazione descritta che, con diverse sfumature, potrebbe essere la situazione di molti.

Mi sembra si possano reperire le tracce di un desiderio (“l’iniziativa di mandare i curriculum all’estero”) che spesso – paradossalmente – si fa ostico quando diventa reale.

L’espressione “comfort zone” è sinonimo della presenza di un Altro che ci fa da garante (la famiglia, il lavoro, la routine, il paese) e ci protegge da una radicale e solitaria messa in discussione di noi stessi, che spesso è la condizione inevitabile per realizzare ciò che ci manca e che profondamente vorremmo.

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Si tratta dunque di compiere un atto di separazione dall’Altro (che sul lato conscio percepiamo come limitante, ma su quello inconscio ci solleva da molti problemi) per affermare il nostro desiderio che altrimenti, come l’ “abbozzo” di cui parla  Svevo, rimarrà qualcosa che in potenza può realizzarsi, ma che di fatto non fa altro che cullarsi di questa possibilità.

“Parto o resto?” è dunque la traduzione di un dilemma rispetto a cui ciascuno è chiamato a doversi districare. Occorre ricordare che quel luogo da cui si parte è stato a sua volta un luogo d’approdo, e allo stesso modo potrebbe diventarlo il luogo verso cui si va.

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